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Quattro racconti.doc
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26.08.2019
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Il tempo di una doccia

Ti guardo e non ti riconosco. Non mi riconosci. Le onde propagano calore nei riflessi, e mi chiedo cosa ti sia successo stanotte. Mi guardi con aria interrogativa, come se io potessi rispondere al tuo posto. Ti soffermi, e allora ti spio, ti scruto, per capire. Ma cosa dovrei fare, se tutto è così nebuloso? Vuoi chiedermi aiuto, e io non posso fare altro che stare di fronte a te, impotente. Vorrei cambiare la tua espressione. Mi piacerebbe abbracciarti ma so che non vuoi. E non puoi. In ogni caso.

Dev’essere stata una notte dura, di quelle che non si scordano facilmente e ti fanno lavorare male. Sogni arraffazzonati, gola secca, e poi quel dormiveglia ansioso che amplifica come un megafono tutti quei pensieri lerci, superflui, ormai inutili. Una di quelle notti che ti rivelano qualcosa di prezioso, ma da cui cerchi di allontanarti perché il senso di pesantezza è insostenibile.

Una di quelle notti che avresti voluto scopare e non hai avuto nessuna occasione, in cui prendere la macchina e sparire nel buio chiedendo pietà – o tenerezza - ai segnali stradali, all’asfalto, alle curve appena illuminate dai catarifrangenti. Una di quelle notti in cui la solitudine è come una splendida puttana nigeriana, che vorresti comprare a poco prezzo in cambio di un appagamento breve e lontano, cucito sulla tasca dei pantaloni. Una di quelle notti in cui vorresti credere all’amore eterno, ma le prove del contrario e la cattiva digestione ti fanno ricredere, dopo cinque-sei cambiamenti di posizione nel letto.

E non ti accorgi che se sposti il tuo volto verso sinistra, senza sorridere, diventi più bello, di un’intensità che ha il sapore di un boccone di pasta fatta in casa, che si sparpaglia gioioso da qualche parte prima di arrivare all’esofago. Un nodo allo stomaco provocato da un’emozione indeterminata.

Che vuoi che ti dica? In silenzio rimando la palla a te. Vedo la tua immagine e non riesco ad entrarti dentro, a guardare tutto quello che ti porta ad avere quei segni sul viso. Quanto vorrei saltare il fosso, conoscere, esplorare… ma non mi è permesso, come al visitatore di un museo non è permesso toccare la sua statua preferita, pure così vicina a lui.

Ecco quello che mi sconvolge ogni volta: la tua irraggiungibilità. Saperti così vicino e non appartenere alla tua sfera più profonda, guardarti e non toccarti, averti sempre di fronte e non poter attraversare questo spazio che ci divide. Vedere i tuoi occhi che osservano, approvano, sorridono, si disperano. Un dialogo muto e intermittente, ma inevitabile.

Cosa vuoi da me? La restituzione di un sorriso che non hai, di una certezza che ti illumini? Sai che posso darti solo nuovi dubbi, solo l’immagine di me deformata dai tuoi pensieri.

Eppure a volte irradi una luce che non saprei descrivere. E’ un lampo. Una convinzione che scompare appena arriva. Il germe di una resurrezione terrena, la cui eco è un timido tuono che non si fa ascoltare abbastanza.

Ecco, ancora una volta ti sei allontanato. Solo vapore davanti. Penso che questa distanza, in realtà, ci avvicini più di quanto possiamo immaginare. Non ce ne rendiamo bene conto, ma è così. Ci avvistiamo da lontano, senza uno sfioramento, senza un’apparente intima comprensione. Ma se ci guardiamo, restiamo – ineluttabilmente - l’uno nell’immagine dell’altro, anche per un solo secondo. E sai - e so - che fintanto che vivrai avrai bisogno dei miei occhi e io dei tuoi. E magari un giorno ci riconosceremo, e tutto coinciderà perfettamente.

Allora saprò che non cerchi più conferme in me, ma la consapevolezza che le tue notti sono cambiate, che sei tu ad accompagnarle in qualche bel posto, e si fanno accarezzare da te con la dolcezza delle prime parole pronunciate dai bambini.

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